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Innovation Norway - Jens Henrik Nybo - Visitnorway.com |
The so called Unidentified Flying Fish |
Le acque dell’Artico nascondono mostri terribili, ma
avvistarli fra i flutti non è per nulla facile. Né, tanto meno, riconoscere di
che natura siano. Animali preistorici? Sommergibili fantasma? Spettri della
coscienza? Recentemente solo due persone ne sono state testimoni, senza
riuscire però a sollevare il velo in modo definitivo: la glaciologa norvegese
Monika Kristensen, giunta in Italia per presentare il suo avvincente libro ambientato
nelle Isole Svalbard, “Operazione Fritham”, e l’attrice russa del pluripremiato
film “Leviathan” Elena Lyadova, i cui occhi in lacrime hanno colto una verità tremenda
al largo di Teriberka. Benché distanti centinaia di chilometri, l’arcipelago
artico e lo sperduto villaggio di pescatori nella penisola di Kola, a nord di
Murmansk, sono legati a uno stesso filo rosso, ma neve e ghiaccio tentano di
separarne le sorti in ogni modo. Strano destino: viviamo in tempi di disgelo polare
proprio mentre monta una nuova guerra fredda, incautamente cercata da chi
ancora non ha imparato a rispettare il primo e originario abitante di quei
territori. L’Orso.
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Innovation Norway - Jens Henrik Nybo - Visitnorway.com |
E per una Terra che bolle non manca certo una verità che
scotta; perché quando il ghiaccio si dilegua, c’è poco da arrabattarsi: quel
che è fatto è fatto. Quel che è scritto è scritto. Lo sanno molto bene
paleontologi del calibro di Joorn Hurum, capace di riportare in luce ben 10
inquietanti scheletri giurassici ai piedi dello Janusfjellet, fra cui l’enorme
“Predator X”: il più grande rettile acquatico che, 150 milioni di anni fa,
dilaniava qualunque cosa si muovesse nei suoi paraggi, forte di una mascella
lunga due metri e quattro volte più potente di quella del Tyrannosaurus Rex. Grazie
al diritto di far propri i fossili scovati alle Svalbard, a ulteriore riprova del
libero status di sfruttamento garantito attraverso il trattato internazionale del 1920, gli ospiti dediti alla “paleo-caccia” continuano a crescere. Ma i
misteri a infittirsi. Paradossi del progresso. La possibilità d’imbattersi in ossa
conservate ancor meglio della piccola “Ida”, il più antico primate al mondo rinvenuto
nel 1983 e di nuovo visibile nel Museo di storia naturale di Oslo entro la fine
di quest’anno, alimenta l’illusione: pezzo dopo pezzo, il rompicapo sarà
risolto. E’ solo questione di tempo. Sì, ancora uno. Ancora un po’. Ancora un
passo, prima di dire basta. Meglio muoversi con prudenza, in ogni caso. Gli
abitanti del posto lo ripetono come un mantra, ben consapevoli dei rischi di
spostarsi per un territorio dove gli incontri con gli orsi polari sono inconvenienti
di vicinato, le strade un lusso concesso solo alla cittadina di Longyearbyen,
mentre i voltafaccia meteorologici, al pari dei subdoli acquitrini creati dalla
ritirata del permafrost, si rivelano improvvise trappole letali. E non c’è
kayak, gatto delle nevi o slitta da cani che tenga.
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Innovation Norway - Kristin Folsland Olsen - Visitnorway.com |
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Innovation Norway - Kristin Folsland Olsen - Visitnorway.com |
Senza una guida esperta al
fianco, persino un’innocua passeggiata sui ghiacciai può trasformarsi in
un’impresa pionieristica. Occorre allora imparare a leggere ogni segno: dal
volo di un’oca artica o di un lagopus maculato, alle minime variazioni di
tonalità delle oltre 140 specie floreali che, fra giugno e ottobre, colorano
appena il 6% di territorio libero da ghiacci. Indispensabile riconoscere una
parola norvegese, essenziale un cartello in cirillico. Sicuramente divenire un
buon bird-watcher, o un esperto botanico, rappresenta un primo e saggio passo
per non farsi sorprendere dalle insidie del deserto artico, ma al tempo stesso
per apprezzare il suo fragile ecosistema con occhio acuto: benché siano meno di
35mila i visitatori internazionali in arrivo ogni anno, e ancora pochissimi
quelli in grado di contemplarne le impenetrabili notti polari fra novembre e
febbraio, alle Svalbard l’uomo resta pur sempre un ospite troppo ingombrante.
Se non, addirittura, rumoroso, quando indulge in festival jazz o blues per
sostenere l’isolamento invernale, o si lancia in canti a squarciagola sulle
fiamme innalzate per il ritorno del Sole, irrinunciabile rito di marzo durante
la settimana del Solfestuka.
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Innovation Norway - Asgeir Helgestad/Artic Light AS/visitnorway.com |
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Barentsz map (1598) |
Consapevole della propria forza, proprio come l’orso
canuto, la natura sta spesso a guardare e raramente si scompone. Anzi, quando
le acque dell’Isfjord tornano ogni anno a lambire i porti della capitale o
della colonia russa di Barentsburg, libere finalmente dalla morsa del ghiaccio,
il paesaggio pare immutabilmente lo stesso. Si risveglia nelle medesime condizioni
in cui si era addormentato. O almeno, così viene spontaneo pensare sin dai
tempi in cui l’uomo ha iniziato a darne testimonianza, dapprima attraverso le
descrizioni su “l’isola dalle fredde coste” contenute nella saga islandese
“Svalbarði fundinn” del 1194, quindi grazie ai più meticolosi appunti lasciati
dal loro moderno scopritore Willem Barentsz nel 1596, quando l’arcipelago non
era altro che un ottimo approdo per la caccia alle balene e per gli arpioni dei
maestri baschi.
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Longyearbyen view - Smudge9000 |
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Longyearbyen - Smudge9000 |
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Longyearbyen Miners memorial - Smudge9000 |
“Huset,
la casa delle riunioni di Longyearbyen costruita negli anni Cinquanta e quasi
mai più toccata da allora – ricorda la Kristensen in “Operazione Fritham” - era
ancora un luogo d’incontro molto popolare, sia tra i locali che i turisti.
Risaliva alla stessa epoca della grande mensa di Sverdrupyen e ne condivideva
la forma squadrata e la fiducia nel luminoso futuro industriale
dell’arcipelago, che dopo soli dieci anni doveva rivelarsi priva di fondamento.
I due edifici avevano in comune anche il colore indefinibile, un grigio verde
che forse un tempo era un marrone chiaro. Erano i luoghi in cui i minatori
venivano a bersi una birra e rilassarsi un po’ dopo il turno di lavoro in fondo
alla montagna; si trovavano nei pressi delle loro abitazioni, nella parte
vecchia della città che aveva preso il nome di Einar Sverdrup, per molti anni
direttore della Store Norske e morto sotto i bombardamenti dell’Isbjorn e del Selis”.
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Bundesarchiv Bild 101I-432-0796-07, Flugzeug Focke-Wulf Fw 200 "Condor" |
Un vecchio rompighiaccio e una nave per la caccia alle foche. Questi i
potenti mezzi che il fronte anti-nazista riuscì a mettere in campo nell’estate
del 1942, quando si tentò di riprendere il controllo strategico delle isole.
Questi i facili bersagli per i bombardieri tedeschi Focke, che in pochi minuti
mandarono a picco una spedizione durata interminabili settimane, annientando 12
uomini, ferendone altri 15 e costringendo quel che restava degli 83 soldati
originari a sopravvivere lungo la via per Barentsburg. Ma non era certo la
prima volta che le truppe inglesi e norvegesi venivano sorprese dagli attacchi
lampo del Reich. Lassù, nel Mar Artico, i tedeschi sembravano in grado di
rimettere in funzione persino cacciatorpedinieri che, a rigor di logica, non
potevano esser riforniti in alcun modo. Eppure continuavano a farlo. Persino durante
la battaglia navale di Narvik di due anni prima. Eludendo il cordone della
Royal Navy, il carburante era arrivato a bordo della famigerata Jan Wellem. Ma
da dove diavolo se l’era procurato, tenuto conto che l’unica via di
rifornimento nella Lapponia svedese non era ancora controllata? Anche dopo la
fine della guerra, trovare una risposta negli archivi del Museo dell’Occupazione di Narvik è stato a lungo impossibile. Dove si celava mai il
Leviatano nazista?
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German Gebirgsjägers in the mountains at Narvik |
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Monika Kristensen |
Neppure Monika Kristensen lo dice in “Operazione Fritham”,
benché il suo thriller storico si sviluppi fra le Svalbard e il Finnmark, la
contea più settentrionale della Norvegia. Terra di poche parole, ma dagli occhi
sottili, proprio come quelli dei nomadi Sami e delle loro enigmatiche pitture
rupestri nel sito Unesco di Alta. Terra d’indizi e di frontiera, che per
decenni si è interrogata su cosa mai avvenisse oltrecortina. A Korzunovo,
trenta chilometri più a est, i ricordi degli esperimenti cosmonautici di Juri
Gagarin sono tenuti in vita più dalla morsa del gelo che dagli abitanti dell’ex
base dell’Armata Rossa. A Teriberka i tetti cigolano, le porte sono scardinate,
i pescherecci arrugginiscono inesorabilmente sulla spiaggia. Se non fosse per
le promesse di rilancio industriale, che al decaduto settore della pesca è
pronto a sostituire quello dell’estrazione del gas (sfruttando un bacino
off-shore potenzialmente in grado di soddisfare il 2% della domanda mondiale),
gli ultimi 200 abitanti se ne sarebbero forse andati già da un bel pezzo.
Eppure il film “Leviathan”, ambientato in questo lembo di nostalgia sovietica,
non ha semplicemente infuso nuove speranze in chi punta tutto sul turismo.
Sulla bocca dei più anziani è tornato a rimbalzare un nome che si pensava
sepolto sotto le macerie della Grande Guerra Patriottica: Basis Nord.
L’enigmatica,
invisibile, temutissima base di appoggio della marina tedesca che gli accordi
Molotov-Ribbentrop avevano garantito al Reich e attraverso cui i Tedeschi si erano
riproposti di mettere in ginocchio l’Impero Britannico. La conquista della
Norvegia si rivelò però più rapida del previsto e le stazioni d’appoggio ai
sommergibili vennero presto spostaste sul fronte occidentale, arrivando
addirittura alle Svalbard. Basis Nord, oggi perno della flotta artica russa ma
allora solo un abbozzo di scalo nautico fra Teriberka e Zapadnaya Litsa, ebbe giusto
il tempo per entrare nella leggenda. Eppure, se quella dannata Jan Wellem non
avesse rifornito i cacciatorpedinieri nella battaglia di Narvik, forse la
Norvegia avrebbe potuto tenere in scacco i Tedeschi. Probabilmente la Francia sarebbe
stata risparmiata dall’invasione. E la guerra, magari…acqua passata, si dirà.
Rimpianti da reduce. Ma chi conosce a fondo l’Artico, sa bene che certe verità
restano indelebilmente scolpite nella mente, così come nella roccia. Il tempo
congela i ricordi. Li conserva gelosamente e li condivide solo con chi ne è
degno. Ha ragione Monika Kristensen, quando scrive: “Due tipi di persone vanno
alle Svalbard: chi ama l’avventura e la natura estrema, o chi ha qualcosa da
nascondere e dimenticare”.
La
città abbandonata di Pyramiden tace ancora. Avvolta nel silenzio delle sue crepe
e dei suoi palazzi spettralmente vuoti, rilancia ai visitatori le domande su
quel che fu e cosa cercasse qui l’Unione Sovietica. I vecchi impianti
d’estrazione del carbone, dell’oro o dello zinco di
Ny-Ålesund, al contrario,
provano a ricordare ai ricercatori della base Dirigibile Italia, al pari di
quelli dell’ipertecnologica Amundsen-Nobile Climate Change Tower, quanto
l’uomo, nell’Artico, sia solo di passaggio. Quanto le sue conquiste restino
fragili. Un’inflessibile legge cosmica impone di togliere ciò viene preso oltre
il lecito, ma di ripagare con un dono ancor maggiore, qualora si sia capaci di
sacrificare qualcosa di sé. Per un Polo sorvolato con gran clamore
dall’accoppiata Amundsen-Nobile, in quel fatico 26 maggio 1926, due anni dopo
seguirono quasi immancabilmente lo schianto del dirigibile Italia, la morte del
grande esploratore norvegese, la corsa contro il tempo per recuperare dieci
uomini alla deriva.
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@Bernt Rostad |
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Innovation Norway - Jens Henrik Nybo - Visitnorway.com |
Alpinioya, l’isola degli Alpini per lungo tempo invisibile
alle mappe, lancia allora moniti verso chiunque non accetti il limite cui, nel
bene o nel male, l’uomo è consegnato, ma di fronte al quale pare oggi non volersi
rassegnare affatto. E se pure una spedizione commemorativa - come quella
guidata nel 2010 dall’esploratore Piero Bosco e dalla sezione Ana di Cuneo (ma
già pronta a replicare quest’anno) – dovrebbe essere accolta come invito a
meditare sull’hybris dell’uomo, lo scioglimento dei ghiacci, l’annegamento degli
orsi polari, le tempeste improvvise, l’arenamento delle balene si ostinano a
ripetere che il tempo per tornare sui propri passi sta per scadere.
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Longyearbyen Kirk @MartynSmith |
O forse scade,
ogni singolo giorno che sfidiamo incautamente il Leviatano: creatura tanto
immane, quanto ineffabile, che, attraverso il volto sfingico delle Svalbard e
dell’Artico, pone sul piatto della bilancia il paradiso, senza concederci
grazia, né perdono. Paziente, si sforza di parlare la nostra lingua dai
pannelli del Museo delle Spedizioni di Longyearbyen, nelle luci blu del pittore
Olaf Storoo o nel bianco accecante del suo collega Kåre Tveter, attraverso le
mappe ingiallite raccolte presso la Galleri Svalbard, fra le pareti lignee
della chiesa della città, dove un camino acceso, una tazza di caffè o un waffle
non sono mai negati, purché si arresti infine il proprio passo. Si onori il
silenzio. Si alzi lo sguardo verso quel mondo che continua ad abitare oltre
l’illusione dei nostri schermi; ed enorme, terribile, infinito, si staglia al
cospetto di un uomo piccolo piccolo. Qualcuno ha osato a dargli un nome:
Svalbard Global Seed Vault. Il deposito sotterraneo di tutti i semi presenti
sulla Terra. Si è confuso con l’Apocalisse.
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Mari Tefre/Svalbard Globale frøhvelv |
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Aurora over Svalbard @Martyn Smith |
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