Morta ad Atene, l'Europa rinasce a Waterloo. Messo frettolosamente alla berlina da un infelice articolo apparso sul quotidiano La Repubblica, lo straordinario
Bicentenario della ultima, titanica battaglia di Napoleone, ha in realtà
mostrato una via verso cui siamo tutti chiamati.
Anzi, ben più di una: se l'Ufficio belga per il turismo Bruxelles-Vallonia è stato abile e lungimirante nel riaccendere i riflettori sulla fondamentale importanza della Route Napoléon en Wallonie, quel fatidico tratto che l’imperatore percorse nel giugno 1815 da Hanau a Waterloo, l’intervento al Bicentenario dell’ultimo discendente dei Bonaparte risuona ancora nelle orecchie degli europei, ricordando loro chi siano davvero e su quale piano si debbano confrontare: tanto più oggi, di fronte al disperato tentativo greco di opporsi alle umilianti politiche economiche dell'Unione Europea.
Anzi, ben più di una: se l'Ufficio belga per il turismo Bruxelles-Vallonia è stato abile e lungimirante nel riaccendere i riflettori sulla fondamentale importanza della Route Napoléon en Wallonie, quel fatidico tratto che l’imperatore percorse nel giugno 1815 da Hanau a Waterloo, l’intervento al Bicentenario dell’ultimo discendente dei Bonaparte risuona ancora nelle orecchie degli europei, ricordando loro chi siano davvero e su quale piano si debbano confrontare: tanto più oggi, di fronte al disperato tentativo greco di opporsi alle umilianti politiche economiche dell'Unione Europea.
Ben venga, dunque, l’ambizioso progetto di Charles Bonaparte, intitolato “Destination Napoléon”: insieme di rotte turistiche certificate dal Concilio d’Europa proprio pochi giorni prima delle celebrazioni del Bicentenario di Waterloo, al pari di altre note “Vie culturali”, come il Cammino di Santiago di Compostela, la Via Francigena, la Rotta dei Vichinghi o la Via dell’Olio. Un percorso nato in realtà più di una decina d’anni fa, grazie all’impegnativo dialogo avviato dalla Federazione europea delle città napoleoniche, decise a riallacciare i fili di un’identità che si spinge oltre i nazionalismi, ma non per questo rinuncia ai valori fondanti della nazione: era questo il sogno dell’ultimo Napoleone, quello più prudente e riflessivo, consapevole della necessità di operare in senso federale, onde evitare che l’egemonia dell’uno si rivoltasse contro quella dell’altro. La disfatta belga lasciò questo sogno sulla carta, più verosimilmente nel fango della campagna vallone, ma fortunatamente le idee instillate fra i cittadini europei hanno potuto lentamente attecchire.
“I nostri Paesi, la nostra Europa – ha
ricordato Charles Napoléon Bonaparte, affiancato dal figlio 29enne Jean
Cristophe - hanno bisogno di rafforzare
la consapevolezza delle proprie radici, al fine di accrescere la fiducia nella
capacità di affrontare le grandi sfide d’oggi. Anche il nostro desiderio di
capire sempre meglio, di mostrare il nostro patrimonio culturale, è
strettamente legato al nostro desiderio di andare avanti nel progresso sociale
ed economico. La questione dell'identità è al centro di tutte le crisi del
nostro tempo. Cambiamenti comportamentali sono necessari per affrontare le
sfide ambientali, lo sviluppo della scienza e della tecnologia, il
sottosviluppo, ma ognuno di questi ambiti non può poggiare su un terreno sicuro,
senza godere della pace e della riconciliazione con il proprio passato. Come
dice l’antico proverbio, non ci può essere futuro per coloro che non accettano
la propria storia”.
Cosa
rimarrà, dunque, di questo cruciale Bicentenario, costato 10 milioni di euro e capace di raccogliere quasi 200mila visitatori solamente nei quattro giorni di ricostruzione?
I fuochi d’artificio, i cavalli gonfiabili e le torce ardenti dello spettacolo “Inferno” hanno tentato di lanciare un monito con l’unico linguaggio che ancora accomuna generazioni differenti, quello della rock-opera, mentre i 5.000 figuranti scesi in campo in uniforme hanno risvegliato il terrore delle artiglierie incrociate, il tremore della terra sotto la carica della cavalleria, la follia delle geometrie militari che tracciano linee, quadri e cerchi, con uomini usati come pedine.
Né passerà sotto silenzio la cruenta ricostruzione degli interventi sanitari operati nella piccola chiesa di Braine-l’Alleud, visitabile sino al prossimo 5 settembre, dove, fra urla di arti mozzati e budella squartate, perse la vita buona parte dei 13mila feriti “Alleati”, comunque più fortunati della controparte francese sconfitta, che ne contava ben 18mila. Più delle immagini sulle amputazioni e le rudimentali protesi sperimentate all’epoca, a sorprendere è il realismo degli acquerelli prodotti da Sir Charles Bell, fra i più importanti anatomisti ottocenteschi e scopritore della sostanziale differenza fra nervi sensoriali e nervi motori, alla base della moderna neurologia clinica. Gli appassionati di storia continueranno ad affluire sui campi di Waterloo, scalando la collina del Leone per contemplare i fantasmi dell’orrore, scendendo i gradini per inoltrarsi nelle nuovissime sale del Memoriale 1815, o puntando lo sguardo in quella dannata fattoria di Hougoumont che, grazie ai copiosi fondi inglesi per il restauro, può ancor oggi dirsi la vera chiave di volta della fatidica battaglia. Si berrà birra di Waterloo e si gusteranno le sue palle di cioccolato, anziché di piombo. Ci si stupirà delle dimensioni ridotte del letto di Napoleone alla stazione di Le Caillou, così come dell’audace eleganza delle uniformi imperiali, ma non appena il clamore si sarà spento, quando i cavalli si saranno allontanati, allorché le nuvole saranno tornate a velare il sole, converrà accucciarsi sui campi della carneficina. Accarezzare con le mani la segale rugosa o i fiori di lino. Mettersi in ascolto di quella sovrana, distaccata bellezza, che tanto parla della rigogliosa Vallonia e delle sue dolci colline. Dei suoi quieti borghi dove profumi di stufato si commistiano all’odore acre del malto. Dove le biciclette appaiono e scompaiono lungo sinuose randonelles, mentre la polvere nera delle miniere di carbone scrive memorie sulla perduta innocenza di qualsivoglia rivoluzione.
A Waterloo abbiamo perso tutti. A Waterloo possiamo ancora vincere. Perché qui,
ogni anno, andrà in scena un finale che attende solo di essere cambiato. E a
Waterloo, per questo, continueremo a tornare. Merci Belgique, petite maison de la Grande Europe!