A Gobustan le pietre parlano. Talvolta cantano, nel tentativo di accordare la loro voce a quella borbottante dei quasi 400 vulcani di fango che incorniciano la più importante riserva di petroglifi dell’Azerbaijan. Il problema, però, è capire cosa diavolo mai stiano cercando di dire da 15mila anni a questa parte.
Ci hanno provato archeologi, esploratori, persino musicisti, ma ognuno è riuscito a intendere solo una parte della loro complicatissima storia, anche perché i loro racconti obbligano a prendere in considerazione tempi e località che sembrano aver ben poco in comune.
“Si dice che una volta i Sakain, cioè gli angeli, e le immagini degli dei, abbiano pianto su Janbusad, così come tutti i Sakain avevano pianto su Tammuz”.
Ci risiamo. Azad è un pozzo inesauribile. Proprio come i giacimenti di petrolio e gas che tempestano i 64 aridissimi chilometri fra Baku e il sito archeologico, salutato instancabilmente dalle braccia azzurre delle trivellatrici. Fa un passo e si ferma. Punta un graffito e comincia a rovistare nelle memorie dell’intera Mezzaluna fertile. Collo massiccio, occhi vivaci del colore dell’ossidiana, non è la solita guida che recita la lezione a 33 giri. Per lui Gobustan è piuttosto un punto d’incrocio, il luogo dove convergono i saperi millenari di una tradizione che non conosce differenze di razze o di credo, pur ammettendo di aver di fronte uno dei più antichi rompicapo dell’umanità. Seguirlo nelle sue digressioni, però, implica aver ben presente una mappa geografica i cui punti cardinali si estendono almeno dall’Armenia al Khuzestan.