A distanza di 100 anni dal primo viaggio aperto al pubblico, la Transiberiana resta ancor oggi la ferrovia più lunga al mondo: 9288 chilometri di binari, che dal cuore della capitale russa corrono sino all'Estremo Oriente, attraversando 485 ponti, 87 città, 16 fiumi e 8 fusi orari in 7 giorni di viaggio. Un mito intramontabile, eppur qualcosa sta definitivamente cambiando...
(servizio originalmente pubblicato su Il Giornale del Viaggiatore)
Più che
di Transiberiana, sarebbe ora si cominciasse a parlare di Transiberiane. Se la
definizione al singolare poteva calzare ancora nel 1903, quando Pietroburgo e
Vladivostok furono collegate per la prima volta in modo regolare e lungo un
tratto continuo di quasi 10mila chilometri, oggi il mito della ferrovia più estesa del mondo coglie spesso
impreparati. Non si tratta solo di un problema di scelta del tragitto più adeguato, benché sia di per sé evidente che le domande sollevate
dalle sue molteplici diramazioni potrebbero già indurre
repentini ripensamenti: meglio raggiungere l’Estremo Oriente passando per le
comunità buddiste a sud del lago Bajkal? O
lambendone invece la sponda nord, così da
poter sbalordire di fronte al megalitico complesso idroelettrico di Bratsk?
Passare per la Niznij Novgorod del padre del realismo socialista Maksim Gor’ki, o
puntare piuttosto alla Celjiabinsk degli eroici carri armati T34? E ancora:
scendere verso i centri aerospaziali di Samara, o tuffarsi nella sorprendente
avanguardia culturale di Perm?
Interrogativi su interrogativi, rispetto ai
quali le certezze del viaggiatore cominciano a vacillare, sempre non sia stato
posto ancora il dilemma se volgere verso le steppe centroasiatiche, o lanciarsi
piuttosto nei territori transmongolici. Quale treno, poi? I lussuosissimi e
nostalgici modelli “Golden Eagle Trans-Siberian Express”,
o le più farraginose carrozze dei pionieri
euroasiatici? E che pensare delle nuove locomotrici ad alta velocità, pronte a
rivoluzionare il concetto stesso di viaggio via terra? Si potrebbe scegliere di
restare a bordo per giorni ininterrotti e abbandonarsi completamente alla magia
straniante dei 9 fusi orari attraversati, ma anche rischiare più e più soste,
consapevoli del fatto che una Russia assai poco ortodossa è pronta a sedurre nel cuore della
taiga, al pari delle streghe invocate nei versi di Esenin o Aleksandr Blok. A
dispetto dell’immagine
sinistra e desolata consolidatasi nell’immaginario europeo, “quell’immensa
distesa a est del cuore”,
di cui Philippe Jaccottett ha invano cercato l’ultima parola, continua a rivelarsi
frontiera d’inesauribili
opportunità.
Non a
caso sono sempre più i russi
che, stanchi di vite troppo omologate, balzano sul primo treno in partenza,
decisi a unirsi a qualche comunità utopica
fra le inesauribili foreste di betulle evenke, o a isolarsi in angoli tanto
remoti da scoprirsi improvvisamente asceti. E’ capitato
a chi ha messo piede senza troppa cautela sull’isola sciamanica di Olkhon, sacro
ombelico del lago Bajkal, ma anche a quanti hanno avvicinato i villaggi “eretici” dei Vecchi Credenti, imbattendosi
magari in un abitante della novella eco-Gerusalemme di Vissarion. Una verità sola resta inoppugnabile: cimentarsi
nella traversata del continente euroasiatico significa perdere i nostri
tradizionali punti di riferimento spazio-temporali, così come ritrovarsi a fare i conti con le
voci mai veramente zittite della propria coscienza, pur nella rassicurante
dimensione di un viaggio dove partenza e arrivo appaiono a loro modo certi. Che
qualcosa d’indecifrabile
s’insinui
nelle pieghe dei pensieri, diviene manifesto già dopo
le prime tappe: la luce, la cangiante e rassicurante luce del giorno e della
notte, si sottrae silenziosa alla severa legge del quadrante, ingaggiando una
sfida audace con l’autorità di Mosca.
Nonostante l’orario di
bordo sia tenuto a rispettare sempre e comunque la corsa delle lancette della
capitale, nel disperato tentativo di aggrapparsi a un principio d’ordine, l’immutabile
teoria di betulle fuori dal finestrino finisce per risvegliare dubbi atroci:
Viktor Pelevin, una delle penne più geniali
della Russia post-sovietica, li ha fatti propri nello straordinario racconto de
“La freccia gialla”, nel quale
i passeggeri a bordo del treno finiscono per rinunciare a capire per quale
motivo non si arrivi mai a destinazione, tanto da trasformare le carrozze
stesse in un micromondo fuori dal mondo. Si parte infatti con la certezza di
raggiungere una o più città, o
comunque di arrivare a destinazione, salvo poi rendersi conto che sono le città stesse a essere già sedute al nostro fianco, mentre l’abitudine,
o semplicemente il bisogno di votarsi alla convivialità - al di là della comprensione o meno della
lingua - rende piano piano invisa l’idea di dover arrivare. Anzi, decide
infine di rimuoverla; perché arrivare
significherebbe dover rompere improvvisamente l’incanto di un’improbabile
comunità nomade che, nella schiettezza sospesa
delle sue confessioni, appare assai più umana
e autentica di qualsiasi cosa possa stare oltre.
Può riconoscersi in un brindisi
clandestino a base di vodka e cetrioli salati, quando l’assistente
di carrozza, la nerboruta provodintsa, è intenta
a controllare l’ebollizione
del samovar a fine scompartimento; può solidarizzare
durante il mercanteggio di un piroshki ripieno al cavolo, in una delle
affollatissime e a volte frenetiche soste che permettono ai contadini di
piazzare sui binari le loro primizie di campagna; può manifestarsi nel corso di una partita
a scacchi, ingaggiata infilando con complicità un
pedone fra le dita; e poco importa se non si vincerà mai: sono gli sguardi camerateschi,
gli abbracci costretti all’addio,
i cori contagiosi intonati per coprire la litania delle rotaie, a parlare una
lingua sconosciuta, ma incredibilmente chiarissima. A volte si rianima
attraverso un brandello di pesce secco allungato sotto il naso nel cuore della
notte, mentre si è avvolti in
lenzuola impeccabili quanto le premurose mani delle sorveglianti; altre irrompe
nella melanconica balalaika che sveglia sulle note di Podmoskovnye vecera,
tributo alla Mosca che fu, o forse è sempre
stata. La cogli nel sorriso della giovane studente Tanya di Yekaterinburg, che
orgogliosa ti mostra le sue foto alle installazioni in ferro della capitale
estrattiva degli Urali; la ritrovi nelle sculture in legno di Dimitri, sbucate
improvvisamente da una sacca che profuma ancora dei larici a nord di Omsk;
scintilla negli occhi a mandorla di Andrej, che tiene ostinatamente calcato
sulla testa il cappello in feltro dei buriati, i fieri discendenti di Gengis Khan. Ovunque lo sguardo si posi o l’orecchio si tenda, è sempre un brulicare di vita che si
porta appresso un frammento unico - e forse irraggiungibile - dei 46 oblast,
delle 22 repubbliche, o di qualsivoglia partizione la leggendaria burocrazia
della Federazione russa escogiti, mentre fratelli, cugini, avventurieri, “biznes men” e perdigiorno continuano a spostarsi
in barba agli ormai dissolti confini dell’ex impero sovietico. No. Un viaggio
lungo la Transiberiana non basterà mai,
ma neppur mille: perché la
Transiberiana resta un nome di comodo solo per chi si ostina a pensare esistano
un inizio e una fine. Forse una necessità di
sopravvivenza per noi europei, cresciuti a pane e illuminismo. Niente più che uno sbadiglio d’eternità, per quell’orso russo
che porta nel cuore l’infinito
e ha negli occhi il sorriso enigmatico della Sfinge.
“Moj dom,
maja kriepost’”
“La mia casa è la mia fortezza”. La Russia
storica comincia qui. Da questo antico detto popolare d’incerta
origine che, nella sua versione slava, condensa però secoli, se non millenni, di ostinati
tentativi di radicamento. Privo di rilievi capaci di offrire una difesa
naturale e favorire lo sviluppo continuativo di una civiltà, il
territorio oggi occupato dalla Federazione russa è sempre
stato spazio di facile conquista, tant’è che
l’unico modo
per consolidare la propria presenza finì per
passare dall’innalzamento
di barriere artificiali. Così almeno la pensavano
i popoli nomadi e guerrieri, di origine indoeuropea, che spazzarono via o si
sovrapposero a una civiltà ancor più antica e pacifica, basata sui valori
antitetici del matriarcato e dell’agricoltura, ma soprattutto su
rapporti di solidarietà collaborativa:
seguendo gli studi dell’archeologa
Marija Gimbutas, si può allora ben
comprendere come il cosiddetto “complesso d’assedio”,
frettolosamente ascritto ai russi dall’Occidente atlantico, non sia affatto
una distorsione psicologica del loro carattere nazionale, bensì il fondamento stesso su cui la loro
civiltà è stata
edificata. Bisognerebbe tenerlo a mente ogni volta che ci s’imbatte in
un cremlino, presenza costante in ogni città russa
di antiche origini (sono almeno 20 quelli cui viene attribuita maggior
importanza storica), in quanto evoluzione del più basilare
ostrog: accampamento colonico chiuso da palizzate in legno, grazie al quale non
solo hanno preso origine i primi centri abitati della Russia, ma ne hanno anche
alimentato la costante espansione attraverso i territori siberiani.
Il
concatenamento degli ostrog fu infatti lo schema d’insediamento
mediante cui i Cosacchi, a partire dal valoroso Yermak nel XVI secolo,
avanzarono dalla Moscovia sino alle coste del Pacifico, secondo una modalità che ricorda quasi la riproduzione
cellulare. A differenza dei castelli o delle fortezze presenti nel resto d’Europa, i
russi sono stati costretti a sviluppare i propri nuclei abitativi o militari
secondo un principio di orizzontalità che,
data la morfologia del terreno, necessitava di occupare tutti gli spazi piani
per poter difendere con successo gli insediamenti creati. Persa la loro
funzione militare, parte degli ostrog lignei sono evoluti in cremlini in
pietra, differenziandosi stilisticamente e costellando la Russia di veri e
propri capolavori architettonici: se i nuclei di Kazan e Astrakhan, dove l’influenza
tartara-mongolica è meglio
distinguibile, sono oggi fra i Patrimoni Unesco di più immediato accesso insieme al
complesso di Mosca, il più antico
risulta invece il cremlino di Veliky Novgorod, le cui prime attestazioni
risalgono al 1044. Quello maggiormente esposto a nord si trova nelle famigerate
isole Solovetsky, ex monastero artico trasformato in penitenziario. Perla
straordinaria, purtroppo rimasta isolata dalla principale arteria della
Transiberiana, resta però Tobolsk,
per secoli il cuore nevralgico dell’avanzata a est, prima di essere
scavalcato da Yakutsk, nella repubblica di Sacha. Proprio per la sua posizione
insolitamente rialzata, ha acquisito uno status peculiare che, sino ad oggi,
gli ha permesso di essere l’unico
cremlino in pietra di tutta la Siberia. La sua bellezza scenografica ha
ispirato numerosi fotografi, ma nessuno è riuscito
sino ad ora a produrre uno scatto del valore pari a quello dell’ex
presidente Dimitri Medvedev: venduto a un’asta di beneficienza il 16 gennaio
2010, ha fruttato ben 51 milioni di rubli (all’epoca, quasi 2 milioni di
dollari).
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