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I Matsés non conoscono confini. La loro terra ancestrale si estende tra Perù e Brasile © Survival International |
Il suo nome rimbalza di bocca in bocca persino qui. In una scuola tenuta insieme da quattro assi traballanti, a rischio d’inondazione ogni volta che le piogge gonfiano le acque del Rio delle Amazzoni, dove mancano quotidianamente penne e fogli; ma non il desiderio di spingersi oltrefrontiera. Se per i bimbi di Santa Rosa è naturale ritrovarsi con un piede in Perù, con l’altro in Colombia o con un balzo in Brasile, ben più arduo riesce immaginarsi cosa possa aver mai spinto su una microscopica isoletta amazzonica Antonio Raimondi, l’esploratore italiano che trovò nella neonata repubblica del generale José de San Martin la sua seconda e vera patria.
Sì,
proprio lo stesso cui il Museo Mudec di Milano ha voluto dedicare una
sorprendente mostra, in calendario dal 28 ottobre al 26 febbraio 2017,
lasciando tutti a bocca aperta: perché Raimondi non fu affatto uno dei tanti e
troppi transfughi dell’Italia post risorgimentale, ma un cartografo
meticolosissimo, uno scienziato poliedrico, un botanico di primissimo livello,
di cui i suoi ex concittadini neppure supponevano lo statuario prestigio
riconosciutogli tutt’oggi nella storia peruviana.
Catarina
lascia il banco e prende un respiro profondo: “nato a Milano il 19 settembre
1824, dopo aver combattuto contro gli Austriaci nel 1848, arrivò in Perù a
Callao e divenne il più fido collaboratore del grande medico Cayetano Heredia”.
Sgrana gli occhi verso la maestra, attorcigliando nervosamente le punte dei
suoi lunghi e liscissimi capelli corvino, quindi torna al suo posto con un
sorriso orgoglioso. Tocca a Maria, vestita in una magliettina fuxia che
inneggia al girl power, nonostante il colore ambrato della pelle e la
finezza dei lineamenti l’avvicinino molto più a una timida raccoglitrice dei
Matsés, che a una sfrontata cantante inglese. “Fra il 1851 e il 1869 girò in
lungo e in largo il nostro Paese, registrando e catalogando ogni informazione
utile alla scienza: studiò i giacimenti di carbone del litorale pacifico,
analizzò e quantificò il guano delle isole Chincha, verificò il salnitro di
Tarapacà, percorse le remote province aurifere di Carabaya e Sandia, navigò…”.
La maestra fa cenno d’interrompere e scuote il capo soddisfatta a metà. Non era
l’elaborato che aveva in mente. “Avevo chiesto di raccontare cosa
rappresentasse per loro un personaggio come Raimondi - confessa - ma è
più facile scopiazzare notizie da wikipedia col telefonino, piuttosto che
sforzarsi d’argomentare con le proprie parole”.
E’
già notevole che, a distanza di mesi, i bimbi della scuola elementare di Santa
Rosa ricordino chi sia Antonio Raimondi. Con tutti i problemi e le tragedie che
investono la piccola isola a presidio della Tripla Frontiera, un vecchio
esploratore d’origine italiana non dovrebbe certo occupare le colonne della
cronaca. Eppure l’entusiasmo suscitato dalle sue gesta, soprattutto fra gli
abitanti di una comunità costretta a fantasticare soltanto delle meraviglie
oltre gli uffici della dogana, prova più di qualsiasi interrogazione la
popolarità di cui continua a godere in Perù. Merito anche delle missioni commemorative alimentate dalla Società Geografica Italiana, giunta a Lima lo scorso anno col suo segretario generale Simone Bozzati, in compagnia della responsabile degli archivi Nadia Fusco, proprio per rilanciare le piste aperte dai nostri antichi esploratori. A un centinaio di metri, sulla
sponda colombiana o brasiliana del fiume, se ne perdono però le
tracce: d’altra parte Leticia è ormai intenta a imbellettare la sua immagine di
seconda capitale amazzonica, in competizione con la storica Manaus, mentre
Tabatinga ha ben altri grattacapi. L’assenza di una vera autorità statale alla
porta d’ingresso all’antico Vicereame spagnolo ha fatto crescere a dismisura
il traffico di droga, in arrivo proprio da Manaus su vaporetti scalcinati che,
in circa tre giorni, fanno la spola verso l’ultimo avamposto verdeoro. Per gli
abitanti della zona è “la legge del tre”: quando uno dei vicini si rafforza
troppo, a soccombere è sempre quello più debole, indipendentemente dalle
ricchezze che ha da mettere sul piatto. Fra gli anni ’70 e ’80 fu Leticia la
vera miniera d’oro del narcotraffico, la cosiddetta “bonanza”, per via del suo
isolamento dalle truppe governative in perenne lotta contro la guerriglia Farc.
Poi la Colombia, supportata dagli Stati Uniti, è tornata prepotentemente a far
sentire il proprio peso nell’area, a tal punto che i tassi di omicidi a Leticia
sono scesi al 22.5% rispetto al totale della popolazione cittadina, circa
40mila abitanti. Al contrario, la brasiliana Tabatinga ha visto crescere a
dismisura la criminalità sul proprio territorio, risultando addirittura una
delle città più violente al mondo. Meri regolamenti di conti fra bande di
narcos messi sempre più alle strette. Era inevitabile che, prima o poi, a
finire nel mirino dei giri illeciti dovesse essere proprio la sperduta isoletta
peruviana di Santa Rosa, trovandosi in posizione strategica per raggiungere la
ricca Iquitos e il cuore delle Ande, nonché a un soffio dalle più
intraprendenti consorelle di confine. Per i rari turisti di passaggio, in
verità, il narcotraffico della Tres Fronteras suona più una vecchia
leggenda: anzi, a Tabatinga si va a ballare spesso e volentieri, nel caso si
soggiorni a Leticia, visto che ogni sera una nuova festa rallegra gli abitanti
del posto e le fanciulle non lesinano ammiccamenti.
Ho
ancora ben presenti le parole della mia guida Laura, sussurratemi all’orecchio
mentre volteggiavamo fra bancarelle di anacardi arrostiti e stuoie ricoperte da
collanine in denti di piranha. “Tieni gli occhi su di me. Qui un solo
sguardo può far scoppiare una guerra”. Se Antonio Raimondi avesse potuto
vivere così a lungo da verificare con mano a cos’abbia portato il consumo della
cocaina, di cui lui stesso fu fra i primi a isolare il principio attivo per
finalità mediche, si sarebbe forse dedicato a qualche viaggio in più. Con 19
spedizioni all’attivo in Perù e ben 45mila chilometri percorsi a piedi, in
canoa o a dorso di mulo, ancor oggi impressiona i migliori atleti sudamericani.
Viaggi estremi - dalla costa pacifica alle liane del Rio delle Amazzoni - gli
permisero infatti di raccogliere dati a tal punto precisi che, negli anni ’30,
il governo di Lima gli commissionò la prima carta scientifica del Paese. Un
capolavoro di stupefacente meticolosità, degno dei migliori rilevamenti di
Google Map e oggi riprodotto in scala nel museo di Milano. D’altra parte,
osservando il corredo di attrezzature che soleva portarsi al seguito,
s’intuisce facilmente di che pasta fosse fatto: robustissimi cannocchiali in
ottone, manuali di storia naturale rilegati in pelle per resistere alle piogge
battenti, bussole ad alta precisione, curiosi sestanti e miriadi di tavole
botaniche disegnate con rara maestria. Non male per un figlio di un ricco
pasticcere e di un’addetta all’imbustamento, troppo deluso dalla sconfitta
delle Cinque Giornate per accettare di avere un futuro nell’Italia non ancora
unificata.
“Di
solito chi arriva a Santa Rosa è mosso da interessi facilmente intuibili” -
azzarda Carlos, uno dei barcaioli che ogni giorno si districa fra mangrovie e
venditori di yucca, muovendosi da una sponda all’altra del Rio. I bimbi della
scuola lo conosco bene, dal momento che è uno dei pochi sempre disponibile a
caricarli gratuitamente per far visitare loro i mercati locali. “Da qui
parte la rotta degli ayahuascheros, europei o gringos mezzo fumati che
vanno più a nord per farsi spellare dollari da sciamani da quattro soldi. A
volte si fermano già nella riserva di Marasha, nei pressi di Puerto Alegria,
visto che ai brividi della sacra bevanda possono comodamente abbinare una tappa
per l’osservazione degli alligatori, o di enormi esemplari di Victoria Regia. Ma il loro primo obiettivo resta la vecchia città coloniale di
Iquitos, o addirittura qualche sperduto villaggio nelle Ande. Se non sei uno di
loro, molto probabilmente è però al Rio Javari che punti. Madre de dios!
Non lo consiglio a nessuno!”.
Scendendo
25 chilometri circa da Tabatinga, le mappe odierne finiscono per rassomigliare
in modo impressionate a quelle di Antonio Raimondi: di fatto la Vale do Javari
è ancora un buco nero, capace d’inghiottire chi s’inoltra a suo rischio e
pericolo. Ufficialmente viene riconosciuta come riserva dove si suppone abitino
circa 3mila o 4mila nativi, buona parte dei quali incontattati, ma nessuno è
mai riuscito a esplorare gli 85mila metri quadrati di fittissima giungla che
dividono il Perù dal Brasile. Ci andò vicino Gaetano Osculati, che nel 1847
individuò per primo le fonti del Rio Napo, mentre Antonio Raimondi preferì
raccogliere informazioni sull’uso medico di alcune piante locali nell’area
della Tripla Frontiera. Il suo ultimo viaggio si arrestò proprio a Tabatinga,
nel 1869. In fondo l’esploratore italiano aveva messo su famiglia e a Lima già
da tempo lo avevano nominato responsabile della cattedra di scienze naturali
alla facoltà di Medicina: la stabilità non è mai amica dell’azzardo. Altri
intrepidi hanno provato a inoltrarsi poco in là, senza avere però la fortuna di
poter raccontare le proprie gesta. Solo negli anni ’60 del secolo scorso è
stato infine possibile conoscere qualcosa in più, grazie ai prudenti contatti
con i Matsés, “i figli del giaguaro”.
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Un cacciatore Matsés prende la
mira con il suo arco.
© James Vybiral/Survival |
Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, ha in corso una campagna di e-mail per chiedere alla compagnia petrolifera Pacific E&P di ritirarsi dalle terre dei Matsés. Per partecipare: www.survival.it/e-mail/matses
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"I Matsés si sono opposti con fermezza a ogni tipo di esplorazione petrolifera sulla propria terra"
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“Sono
considerati i migliori raccoglitori-cacciatori dell’intera Amazzonia -
riconosce Carlos, mentre inizia a frugare nelle tasche dei suoi jeans logori - perché
sono capaci di muoversi come il vento e di parlare agli animali. O almeno così
si racconta. Costretti a vivere in un’area paludosa e umidissima, trovano rifugio
in palafitte per nulla facili da raggiungere; in compenso hanno sviluppato
tecniche di comunicazione…ehm…decisamente migliori del wi-fi!”. Scoppia in
una risata catarrosa, mettendo in fuga una coppia di tucano stranamente interessati
alla discussione.
La
ritirata degli indigeni nella Vale do Javari non è probabilmente frutto di
libera scelta: dal 2008 l'ex Pacific Rubiales, multinazionale petrolifera nelle
grazie del governo peruviano, ha ottenuto il permesso di esplorare cinque zone
remote dove si pensa siano presenti preziosi giacimenti. Peccato che queste
aree coincidano di fatto con i territori dei Matsés, già di per sé minacciati
dalle malattie portate in zona da avventurieri e trafficanti. Oltre all’oro
nero, restano vivissime leggende d’inusitati tesori sepolti in quest’angolo di
foresta, tanto che qualcuno ha voluto addirittura scorgervi legami con i
misteriosi reperti collezionati in Ecuador da padre Carlo Crespi. In realtà a
Santa Rosa, così come negli altri insediamenti della Tripla Frontiera, sono le
virtù curative delle piante usate dai Matsés a mantenere vivo un pericoloso
interesse verso la loro area d’insediamento. I portentosi rimedi nativi hanno
sempre fatto drizzare le orecchie agli esploratori giunti in questa zona,
tant’è che lo stesso Osculati apprese proprio dai locali l’uso della
salsapariglia come efficace antimalarico. Tornato in Europa, fu tra i primi a
rendersi conto di come gli interessi farmaceutici si muovessero però su ben
altri canali: ancor oggi, i veri tesori della foresta continuano a rivelarsi
legni preziosi o giacimenti del sottosuolo, piuttosto che l’incredibile e
delicatissima biodiversità amazzonica. Eppure, se si sfogliassero i trattati
botanici di luminari come Raimondi, tante sarebbero le sorprese in serbo.
“Sono
loro ad aver introdotto l’uso del nù-nù e del sapo per propiziare le attività
di caccia, ma soprattutto per conoscere quale sarà il destino dell'uomo” - riprende Carlos, dopo aver bloccato la sua imbarcazione di
fronte a un insediamento di palafitte malmesse. E’ il punto estremo oltre il
quale non si è mai arrischiato e che non intende affatto superare. Quasi per
scusarsi, estrae dalla tasca destra una scatoletta di latta ricolma di
un’inquietante polverina verde. “E’ ottenuta dalle foglie di tabacco
mescolate alla cenere della corteccia di un albero chiamato Macambo. Di solito
i Matsés prendono due dosi uguali di foglie essiccate e cenere, le mettono in
una canna di bambù, quindi pestano il tutto con un bastoncino sino a ottenere
una polvere finissima. A quel punto è pronta per essere soffiata o inalata
nelle narici usando un altro bastoncino cavo”. Mi guarda enigmatico, quasi
non osasse chiedere se desideri provare o meno.
“All’inizio
senti il naso e gli occhi prendere fuoco, a tal punto che la vista comincia a
offuscarsi e il sangue a pulsare nelle vene. So che ti sembrerà assurdo, ma
quando la inali sei davvero in grado di comprendere il linguaggio degli
animali”. In un certo modo, i Matsés tornano loro stessi animali.
S’infilzano sottili stecchini di palma sul labbro superiore, quasi fossero
vibrisse di giaguaro. Analogamente vengono fatti passare attraverso il labbro
inferiore e nel naso delle donne, disegnando poi sul corpo righe rosse a base
di urucù. In alternativa, ricorrono allo sfibrante rito del sapo, la sostanza
tossica emessa dal dorso di una rana tenuta legata per tre giorni. Anche in
questo caso un bastoncino sottile viene usato per raccogliere le gocce
tossiche, sfregandolo sul loro dorso proprio come i venditori di raganelle in
legno, grazie alle quali riproducono un gracidio capace d’ipnotizzare i
turisti in cerca di facili esotismi. Una volta portato il bastoncino su una
ferita aperta appositamente nella pelle, comincia il calvario: scalmane,
sudorazione incontenibile, cuore impazzito. Talvolta capita persino di defecare
contro la propria volontà, mentre la bocca sbava abbondantemente e gli occhi
lacrimano sino a un violento conato di vomito. Infine il tracollo. Un pesante
tonfo a terra, ormai privi di coscienza: è in quell’esatto momento che un nuovo
mondo si spalanca sotto i piedi. “Sì. A quel punto sei salvo. Diventi
invisibile, perché puoi vedere attraverso ogni cosa, persino te stesso”. Sarà forse per questo motivo che gli abitanti
della Vale do Javari riescono a sottrarsi ancora all'occhio della scienza e della tecnologia: sia che si tratti della ricerca "ingenuamente" collezionistica di un Osculati o di un Raimondi, sia di quella ben più insidiosa del Grande, implacabile e presuntuoso Fratello, oggi chiamiamo Google Earth. Almeno sino a quando ci sarà una foresta ove
riparare. E nel grembo della quale rimettere i segreti della propria anima.
PER ULTERIORI APPROFONDIMENTI:
Idee belle, grazie! Itinerario india del nord
ReplyDeleteBellissimo
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